Da - Il
desiderio di essere come tutti - di Francesco Piccolo:
....
Quindi, quando
le squadre entrarono in campo, doveva essere tutto chiaro.
Da una parte
c'erano quelli come noi, dall'altra parte c'erano quelli diversi da noi.
Per mio padre non c'era dubbio per chi fare il tifo. Non potevo avere
nulla da dire.
C'era il fatto, pero', che adesso c'erano due
squadre, una di fronte all'altra: in una giocavano i forti, nell'altra i
deboli; in una c'erano tutti calciatori famosi, nell'altra tutti
sconosciuti; una squadra era padrona di casa, l'altra no, anche se
giocava in Germania - ma non era la loro Germania.
E c'era
un'altra cosa: l'allenatore e quelli che stavano in panchina, nella
Germania dell'Est, avevano una tuta azzurra semplice semplice, come
avrei potuto averla io, con una scritta enorme DDR, che sembrava cucita
dalla mamma dei giocatori, proprio come la mia mamma cuciva il numero
sulla mia maglia.
C'era il fatto, insomma, che a me toccava fare il
tifo per i piu' belli, i piu' ricchi, i piu' forti, quelli con le maglie
e le tute migliori. E questa cosa, in fondo, mi metteva a disagio.
Se nessuno mi
avesse condizionato, se nessuno mi avesse detto che una Germania era
come noi e un'altra era diversa da noi, se ci fossero state due squadre
anonime in mezzo al campo, io avrei tifato di sicuro per la piu' debole,
la piu' povera, quella con le tute comprate al mercatino dell'usato.
Sarebbe stato naturale.
E invece adesso mi dicevano che era naturale il
contrario.
Lo accettavo a fatica, anzi era come se lo
accettassi, ma non mi sentivo in pace - a quel punto non e' che non mi
piaceva una Germania o l'altra: non mi piacevo io.
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