giovedì 21 novembre 2013

Trieste e la crisi


Dopo aver messo alle corde Krugman e Draghi, che non hanno ritenuto di formulare una risposta in quanto spogliati e fustigati dalla lucidita' dell'economista ufficiale di questo blog, il nostro coach K al secolo Roberto Kidzik analizza la crisi di Trieste, citta' amatissima.

 Trieste e la crisi, di Roberto Kidzik

Sento e leggo spesso le “ricette” per sollevare la mia città, ovvero tirarla fuori dalla crisi.

Chi dice: il porto, bisogna rilanciare lo scalo giuliano, Capodistria (alle porte) ha un traffico superiore al nostro, da primo porto dell’impero (asburgico) ad essere superati da una piccola cittadina slovena.
Chi afferma: il turismo. Trieste, situata in posizione strategica, dev’essere il crocevia di genti e culture diverse (come sotto Maria Teresa).
Chi, ancora: turismo congressuale, oppure città della scienza o rilancio della ferriera e, perché no, sentiero della “Grande Guerra”.
Chi scrive non è d’accordo per nulla, contrarian da sempre. La città giuliana pare molto simile alla moderna Europa, imbottita di medicine per guarire, ha finito per ammalarsi.

Quello che manca a Trieste non sono le idee “miracolose” e, a mio avviso, neppure gli investimenti; peggio ciò che manca è la voglia di mettersi in gioco, rischiare per qualcosa in cui si crede, in due parole: “capacità imprenditoriale”.
Al di là di leggende metropolitane, (col bel tempo impossibile trovare un negozio aperto, tutti a prendere la tintarella), il triestino è una persona normale con alle spalle una storia pesante, mai smacchiata dal Dna.
Lo splendore, economico e non, della città risale alla dominazione austriaca, quando la città divenne lo sbocco naturale sul mare per Vienna e cominciarono a moltiplicarsi traffici e commerci. La città era entusiasta, focolaio di culture e crogiuolo di etnie: greci, turchi, ebrei, slavi, erano tutti pieni di iniziative e, alcuni di loro, fondarono banche ed assicurazioni primarie, tuttora colossi. La “grande mano” austriaca aveva portato il benessere economico e la nascita della piccola borghesia.
Vi era pure fermento culturale: caffè (diventati storici) si riempivano di letterati, di intellettuali, chi vendeva colori la mattina e la notte scriveva romanzi fumando “ultime sigarette”.

Poi la guerra, la disgregazione di tre imperi (asburgico, prussiano, ottomano), la città che diventa, una prima volta, italiana. Il sogno dell’impero và in frantumi e la gente ha paura di rischiare, di mettere in gioco quanto guadagnato con sacrificio. Sono tempi bui, in America Roosvelt combatte una crisi che passerà alla storia. L’Europa è debole, preda di facili entusiasmi, ostaggio di abili oratori,
da tale miscela esploderà un’altra guerra. 
Trieste viene sbranata dalle truppe di occupazione che danno la caccia a tutti i “diversi” (che qui da noi sono sempre stati considerati normali, perfettamente integrati). La pace porta la perdita dei territori ed il controllo “alleato” per quasi due lustri. Vi è una ripresa, ci vengono tramandati racconti in cui la gente “trafficava”, considerata la zona franca.
 Poi di nuovo si torna a essere Italia, il Governo punta su Genova, i fasti dell’Impero son uno sbiadito ricordo, chi possiede qualcosa ha ancora più paura di perderla. Vi è un piccolo boom, a differenza del resto d’Italia, perché noi, i napoletani del nord, non possediamo industria, ma sappiamo arrangiarci.
Il settore dei servizi è quello trainante, ma i veri imprenditori, i capitani d’industria non possono provenire da tale base.
La vicinanza con la ex Jugoslavia ci rende beneficiari di diversi “biglietti verdi” e ci colloca in posizione strategica. In realtà i pochi vantaggi per i triestini sono un pieno di “benza” a sconto e sigarette e carne sotto costo.
Passano gli anni e l’allarme rosso diventa uno sbiadito ricordo, con la caduta del muro (1989), Trieste si ripiega sempre più e tristemente si sta avvitando al grido disperato di “No se pol”..

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