venerdì 8 maggio 2015

Papa cool

Direttamente da basketnet.it riportiamo l'articolo di Lelefante:


Sono gli episodi capitati, magari qualche lettura o il navigare in internet che ti danno coscienza su un argomento a cui prima non avevi dedicato un'opinione.
Il rapporto allenatore/istruttore - genitore e' uno di quei temi che forse si tratta sempre con superficialità.
Quando ancora minorenne mi regalavano gloria chiamandomi assistente o vice, ma in verita' ero uno spostabirilli o al massimo un ostacolo mobile, sentivo dai miei guru la classica frase: la squadra migliore e' quella composta da orfani.
Se da giovane ho ripetuto questo mantra dopo l'ho totalmente rinnegato, esattamente come mi dissocio da molti di quei cartelli che girano sulla rete dove si indica un galateo di comportamento dei parenti presenti in tribuna.
Mi sembrano molto banali ed ipocriti.
L'educazione del genitore per me va a pari passo con quella che la società imprime sull'istruttore, ai suoi tesserati quindi ai ragazzi.
Mettere un cartello in tribuna e' molto semplice, fa certamente scena, soprattutto se fotografato e condiviso, ma conta poco.
Si badi bene, chi scrive ha avuto in qualche occasione problemi con i genitori degli atleti anche di eta' molto diverse, ammetto di non esser mai stato diplomatico e tanto meno malleabile. Anche nelle ottime relazioni (ci sono state anche queste) non ho mai ritenuto la confidenza una giusta maniera per gestire quel sottile filo.
Credo nelle riunioni periodiche, in un colloquio alla fine di un allenamento, sempre nel rispetto dei ruoli e nella fiducia.
Non dobbiamo noi operatori delle società mai dimenticare che sono i genitori che portano i ragazzi all'allenamento, sempre loro pagano le rette che sono fondamentali per portare a casa la stagione agonistica, per non parlare poi delle trasferte dove spesso con tre macchine risolviamo il problema.
Alla base di tutto c'e' una parola chiave sola: educazione.
Educazione prima comportamentale poi sportiva, un bambino che entra in palestra e saluta e' già un'ottima base per l'istruttore.
Da recente genitore insisto molto sulla comunicazione di mia figlia: il saluto, per piacere e per favore, grazie, prego, scusa sono fondamentali per il mio modo di vedere la sua crescita e le deve usare a menadito con la famiglia ma soprattutto nei rapporti con il mondo esterno.

Giorgia Jurga ora che il sole bacia Gent (Belgio) passa il post scuola ai giardinetti con vari interessi, dalla raccolta di fiori e sassi, ai classici giochi e solo nell'ultimo mese ha dato segni di propensione ad una generica attività motoria.
Una corsa a ritmi diversi, arrampicare, un maggiore coraggio in salti e tuffi sulla sabbia.
In maniera del tutto spontanea nelle nostre uscite verso il campo giochi vicino alla bellissima cattedrale di Sint Jacob, l'altro giorno si e' trascinata la sua palla preferita, quella di Elsa, Anna e Olaf, protagonisti del film Frozen. Se avete una figlia under dieci sapete di cosa parlo. Ammetto che nonostante la palla non sia arancione e sia sprovvista di spicchi, l'emozione mi e' corsa sulla schiena.
Arrivati alla panchina base, parcheggio la bicicletta, non ho forzato la mano e con distacco ho chiesto come sempre: altalena? Purtroppo la risposta e' stata si, quindi inutile attesa con pallone sotto braccio.

GJ pero' recupera immediatamente punti, blocca l'altalena e chiede: giochiamo a palla? Certo - e poi pandemonio: andiamo a giocare al campo da basket?
Groppo alla gola, bruschetta nell'occhio: Va bene, piccola!
Un misto di palleggi e passaggi, corsa (solo sua!) e calcio, ma va tutto bene, l'importante e' calcare quell'asfalto, stare nell'ombra del canestro, pestare le righe bianche.
Il mio ruolo e' di spalla, di sponda, cosi' posso guardarmi in giro e scorgo padre e figlio con palloni da basket sgargianti, il papa' e' molto cool, jeans stretti, maglietta che sembra infilata a caso ma che invece ha una sua precisa vestibilita', barba rasa e curata e occhialino come tipico del finto nerd hipster, berretto di lana nonostante i venti gradi. Figlio biondo che sfonda di poco i dieci anni, secco, jeans e sneakers, felpa con il cappuccio.
Il loro sembra il classico gioco del giro del mondo, il biondino e' un po' impostato si vede che frequenta il minibasket ma magari qualche allenamento l'ha saltato, il padre e' un giocatore da parrocchia non ha particolare dimestichezza.
Incrociamo un paio di volte le nostre traiettorie, io rendo la palla esageratemente gonfia, il bimbo abbassa gli occhi senza neanche un timido Dank u.
La scena clou arriva su un tiro della media del bimbo, che sbatte sul primo ferro e la palla schizza verso la meta' campo, la recupera, e torna verso la posizione lasciata con una partenza in palleggio con la mano destra.
Ed e' in quel frangente che il papa' lanciando il cappello di lana interviene, fa ampi cenni che il suo palleggio e' alto, che i suoi occhi guardano l'asfalto, e' evidente che questa e' un'osservazione che il bimbo riceve spesso, perché il padre e' molto deluso.
Per tutta risposta il biondo classe duemilatre circa (ho ancora questa influenza da coach: non quanti anni hai ma di che anno sei; d'altronde il mio codice bancomat e il pin del telefono li ricordo con i nomi di ex atleti e collego la loro annata….) scaglia la sfera sulla tabella e se ne va con un labiale che non percepisco, ma l'espressione e' chiara.
Si siede sulla panca, il papa' lo raggiunge, conversano per un paio di minuti, poi il papa' torna ad allenare il suo tiro mentre il bimbo va in altalena.

Caro padre molto cool, mi permetto di consigliarti, lascia stare il palleggio del ragazzo, la prossima volta porta una palla sola e gioca con tuo figlio e soprattutto digli di ringraziare, salutare e sorridere, sempre. Soprattutto al campetto.

Nessun commento:

Posta un commento